Giorno 0: di Viaggi e Speranze

Jāmā Masjid Delhi: Foto- Vincenzo Vassallo

Raggiungere l’India è come trovare la Pace. Non sai come arrivarci, non sai quando ci arriverai, e quando ci arrivi non è mai come te l’aspetti.

E’ la terza volta che vado in India, eppure ogni volta sembra la prima. Non si impara mai davvero. Non ci si abitua mai. E’ come una casa a cui torni, ma che non ti appartiene, non è tua. E’ come una donna meravigliosa, che ami, ma non comprendi. Forse non la comprenderai mai. Ti lascia l’amaro in bocca, e ancora voglia di lei. E’ come la mia Napoli, che amo ed odio da tutta la vita, ma senza la quale non riesco a stare.

C’è stato un tempo in cui la cercavo, la mia India, nei vicoli della mia Napoli. Ora ho come l’impressione di cercare, piuttosto, la mia Napoli, o la sua essenza più intima, nei gully di Varanasi, sui suoi ghat, nei suoi sorrisi. Se chiudo gli occhi, sono già là.

Insomma, con questi presupposti, e la solita fitta al cuore al lasciare amori, affetti e casa, riparto. C’è una forza irresistibile che mi impedisce di non partire, c’è una forza misteriosa che mi richiama a sé, e mi dice “vai”. Vado.

Mi sveglio alle 6:00, tardi per gli standard indiani che imporrebbero di svegliarsi prima dell’alba, per i riti del mattino. Fortuna che non sono un indù, ché la sera prima mi sono ubriacato, e prima dell’alba chi ce la fa a svegliarsi? Mi sveglio alle 6:00, mio padre mi porta a Garibaldi, prendo un pullman per Fiumicino. Step one.

Leggo un po’ durante il viaggio, ascolto Battiato, scrivo qualcosa. Non so se consigliare o meno questo pulmino per Fiumicino, di certo è un preludio del viaggio che mi attende. Arrivo a Fiumicino a mezzogiorno inoltrato, dopo un viaggio che sembrava interminabile. Non sono mai partito da qua, sono abituato al mio più familiare aeroporto napoletano, ma l’efficienza di questo “nord” mi rassicura, mi dice che andrà tutto bene. Stavolta so dove andare, cosa fare, cosa tenere a portata di mano.

Thar desert Rājasthan: Foto Vincenzo Vassallo

Mostro il mio passaporto e la mia autorizzazione di viaggio, che a Nuova Delhi diventerà un visto turistico di 5 anni (fortemente consigliato, ormai costa poco e niente, e vedrete più in là che tornerà molto utile, in futuro). Imbarco il mio zaino, ringrazio, mi dirigo ai controlli di sicurezza. Controllo casuale. Si fermi qui e attenda. Sorrido al primo inconveniente di una lunga serie.

Mi controllano, mi ringraziano per la pazienza, ringrazio loro e mi dirigo al gate. Faccio colazione al McDonald’s. Bye bye Babylon.

Mi siedo al gate E11 affianco a una coppia di anziani sikh che mi guardano sospettosi. Sorrido. I primi di una lunga serie. Mi rilasso, ascolto Battiato, attendo un’oretta. Boarding procedures commence. Mostro nuovamente il passaporto, la carta d’imbarco, l’autorizzazione di viaggio, ringrazio.

Salgo sull’aereo per Nuova Delhi, chiudo gli occhi e prego. Step two.

Attorno a me ci sono, come al solito, personaggi particolari. Non capita a tutti di trovarsi su un volo per Nuova Delhi. Alla mia destra c’è una bambina bellissima, che usa il telecomando del piccolo televisore sul sedile come un telefono, fingendo una telefonata di lavoro. Avrà forse 5 anni. Le sorrido e mi sorride, mi sorride anche la mamma, e sento miele nel cuore, ci poche persone sorridono con tanta dolcezza negli occhi. Più avanti c’è un signore, suppongo sikh, con una bandana in testa e una bambina tra le braccia; parla italiano e ha una bella voce. Accanto a lui sua moglie, con la loro altra bambina.

Tutto intorno una massa eterogenea di rosa e caramello, indiani ed occidentali di tutte le età, ognuno coi motivi più disparati per recarsi in India. La maggior parte non si fermerà a Delhi, ma da lì volerà altrove, magari a Goa, su una spiaggia tropicale. Beati loro! D’altronde, neanch’io mi fermerò a Delhi più di una notte, mi concederò giusto qualche ora di riposo e la gioia di rivedere un’amica, poi ripartirò alla volta di Kashi, Varanasi, casa mia per i prossimi due mesi.

Mentre faccio questi pensieri la mia compagna di volo, la più eccentrica di tutti. Arriva trafelata, con buste su buste piene di quelle che sembrano bottiglie, che scoprirò poi esser bottiglie di vino, è sudata, ha un sorriso gigante. All’inizio penso sia cinese, capirò dopo che è tibetana. Mi chiede di aiutarla con le buste, la aiuto mentre lei va a litigare con le hostess, che dicono il suo bagaglio sia troppo pesante per lo scompartimento sopra i sedili e vogliono imbarcarlo. “No!” risponde lei, “mi ruberanno tutti i profumi così!”; ma dovrà arrendersi. Gli sforzi delle hostess di tranquillizzarla sulla sicurezza dei suoi profumi non servono a nulla. Sono costrette a legare la sua valigia con un filo, e solo allora lei un po’ si calma.

Torna al suo posto indispettita e si lancia in un’invettiva contro le hostess italiane, a suo dire troppo vecchie e deboli per sollevare i suoi bagagli.

“Le hostess sono come top model del cielo”, mi dice, “mi aspetterei dall’Italia delle donne bellissime, forti, prestanti, perché le scegliete così? Rinnovatevi!”

Rido e le dico che non lo so, ma che sono d’accordo con lei. In realtà mi piacciono queste hostess, sono gentili, mi daranno un secondo tiramisù quando glielo chiederò, anche un secondo calzone, prima di atterrare. Ma la mia amica è la mia amica, e devo darle corda.

Ci presentiamo, si chiama Paldon, è nata in India, è figlia della diaspora tibetana e vive a Parigi con suo marito e i suoi due figli. Torna in India alla scuola dove ha studiato per una rimpatriata, mi mostra tanti video di suoi amici tibetani che cantano, mi mostra video dei suoi figli, delle sue precedenti gite in India. E’ molto dolce e molto elegante, mi dice di tagliarmi i capelli. Le dico che ci penserò. Me lo dice anche un assistente di volo, Claudio, è simpatico e dolce anche lui. Anche a lui dico che ci penserò. Lo farò davvero.

Il mio viaggio passa così, chiacchierando con Paldon, le parlo della mia ragazza, della mia famiglia, lei mi parla della sua. Le parlo di amici che studiano tibetano, le dico che io stesso ho dato un esame di religioni e filosofie del Tibet, è contenta. Ma Paldon è sempre contenta. Mi invita ad andare a stare nell’ostello tibetano dove alloggerà lei, ma mi trovo costretto a rifiutare, da quanto mi dice mi sa che non posso permettermelo. Nessuno di noi due riesce a dormire, e parliamo per quasi tutte le 7 ore di volo. Arrivati giù, porto le sue bottiglie di vino fino al banco immigrazione, dove ci separiamo. Non la vedrò mai più. Sorrido al primo di una lunga serie di addii.

Mi giro a guardare la mia fila per visa elettronica. Ringrazio il Cielo che con il mio visto per i prossimi 5 anni non dovrò rifarla. Sarò in fila per le seguenti due ore mezzo, il tutto mentre l’autista dell’ostello mi aspetta, o meglio, sperando che l’autista mi aspetti. Il WiFi non funziona, non ho modo di contattare lui, né, più importante, di contattare mia madre, che starà morendo d’ansia e già celebrando i miei funerali. Sorrido, e penso che bene o male, va bene così, c’era da aspettarselo.

Faccio amicizia con due italiani con i quali tentiamo di trovare un senso a questa massa informe di persone a cui diamo il nome “fila”. Loro hanno l’età dei miei genitori, e sono dieci anni che vengono in India, hanno un aspetto rassicurante da esploratori vecchio stampo e non si perdono in superflue fricchettonate da occidentali. Quando si sta insieme ci si divide il tempo come un pezzo di pane, che da soli non si è capace di finire, e finisce per andare a male. E’ importante ricordarlo, soprattutto in viaggio, per non perdersi in solitarie “malinconie da ricchi”, come diceva Guccini.

Insieme, il tempo è dolce, e non amaro. E queste due ore e mezza, seppur ci sembrano infinite, passano tra chiacchiere e risate. E va bene così.

Arrivo al banco immigrazione e spiego all’addetto i motivi che mi portano in India, accennando un paio di frasi nella mia hindi bislacca.

“Sono un ballerino di Kathak, vado dal mio maestro ad apprendere la sua arte, scrivere una tesi di laurea sulle danze classiche dell’India, vedere amici e migliorare la mia hindi.” E’ sorpreso e contento, così contento da dimenticarsi che sul mio visto c’è scritto che vado a fare “sightseeing”, d’altronde sono così contento anch’io da dimenticarmi la versione ufficiale. Si complimenta per la mia pessima hindi, questa gente è facilmente impressionabile, e io evito di fargli notare che a stento so dire ciao e coniugare un paio di verbi. Lo ringrazio, e con Ale e Giancarlo andiamo a recuperare i nostri bagagli, ci salutiamo e ci ripromettiamo di vederci in Himachal, sulle montagne, dove mi invitano ad andare con loro. Chissà. Sorrido un’ultima volta a Giancarlo, e vado.

Esco dall’aeroporto e trovo Bablu, stanco morto, con un cartello con il mio nome. Mi chiede come mai ci ho messo tanto, le solite cose, gli dico. Mi porta al suo furgoncino, e partiamo verso Nuova Delhi. Sono le 4:00 del mattino. Gli chiedo se posso fumare, mi risponde che non ci sono problemi, gliene offro una, ma lui fuma solo ogni tanto. Mastica un paan, foglie di betel miste a tabacco e spezie, io fumo in silenzio.

Viene da Rishikesh, non gli piace Delhi, è troppo grande. Ha due figlie e un figlio che ha appena finito la scuola, è un brav’uomo. Gli lascio una mancia abbondante per il disturbo di dovermi attendere, e mi lascia all’ostello, dove sveglio un assonnatissimo ragazzo, forse della mia età, che mi invita ad andare subito a riposare e mi dice che delle faccende burocratiche se ne può parlare l’indomani. Ringrazio e vado.

La mia stanza è brutta e bianca, come tutte le stanze di tutti gli ostelli che abbia visto finora, e puzza di smog. Uno dei molti familiari odori dell’India. Storco il naso, sorrido, col WiFi dell’ostello rassicuro mia madre di essere ancora vivo, faccio una piccola preghiera di ringraziamento per il viaggio andato bene, e crollo. Sono le 5:00 del mattino. Step three.

Sono in India. Sono dall’altra parte del mondo. Sorrido mentre mi assopisco.

Certo, non è finita qua, non è mai così semplice. L’indomani mi attendono altre 14 ore di autobus verso Varanasi, la mia meta e uno dei pochi posti nel mondo che ho avuto il piacere di chiamare “casa”. L’anno scorso ci ho vissuto per due mesi, ho avuto l’onore di conoscerla, di innamorarmene, mi ha concesso la grazia di trovare un Maestro per quest’arte misteriosa e affascinante che è la danza indiana, il kathak, in particolare. E’ lui che vado a vedere, perché mi insegni come partecipare al meglio a questa grande Danza che è la vita.

Ma ora è presto per pensarci, e l’India mi insegna, tra le varie cose, che tutto ha il suo tempo. E di questo, se ne parla domani. Ora dormo, e ringrazio.

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