La morte di Elisabetta II a settembre ha riconcentrato l’attenzione sul Commonwealth, l’organizzazione di cui la regina era a capo e alla quale era rimasta fortemente fedele nel corso del suo lungo regno. Il Commonwealth ormai giace nel dimenticatoio ed è sempre meno efficace per far fronte alle attuali problematiche indiane.
La stampa odierna non ha fatto altro che concentrarsi sull’importanza che la defunta regina ha assunto nel preservarlo e che per questo sarà sempre ricordata come la principale campionessa del Commonwealth. In pochi invece si ricordano dell’uomo che per il Commonwealth nutriva le più grandi ambizioni: Jawaharlal Nehru.
Il governo di Clement Attlee e Lord Mountbatten, preoccupato solo di mantenere l’India nel Commonwealth “britannico”, aveva fatto di tutto per convincere i riluttanti leader nazionalisti indiani ad accettare lo status di “dominio” invece della completa indipendenza che avrebbe accelerato il trasferimento del potere.
Così, nell’agosto del 1947, nonostante i timori iniziali di un primo ministro dichiaratamente repubblicano, Jawaharlal Nehru, l’India era diventata un regno del Commonwealth con Giorgio VI come capo di stato. Il Commonwealth “britannico” – che all’epoca rivestiva un’importanza fondamentale – consisteva in un gruppo di “domini” indipendenti legati insieme da una comune fedeltà alla Corona e strettamente connessi da un’eredità bianca condivisa.
L’India, tuttavia, era determinata a diventare una repubblica con un presidente eletto, e, soprattuto, non condivideva le affinità razziali e culturali che legavano Australia, Nuova Zelanda, Canada e Sudafrica al Regno Unito, la madrepatria. Quando la Costituzione indiana prese forma, il luogo, la modalità e l’eventuale adesione dell’India erano diventate questioni sempre più urgenti, oggetto di concitati colloqui tra Londra e Nuova Delhi.
Attlee, desideroso di mantenere l’India nel Commonwealth, inizialmente cercò di convincere Nehru della “naturalezza” della monarchia in India, definendo il repubblicanesimo “un’importazione aliena dall’Europa”. La mossa però fallì, e il governo britannico cercava affannosamente una forma di monarchia che potesse risultare appetibile alle ambizioni indiane, con trovate davvero sbalorditive.
Churchill suggerì che Giorgio VI fosse nominato presidente dell’India, Philip Noel-Baker, Segretario di Stato per le relazioni con il Commonwealth, propose al re di assumere un nuovo titolo sanscrito, e il suo vice, Patrick Gordon-Walker, si batté a favore del più cromwelliano “Lord Protector”. Il governo canadese, infine, intervenne con l’idea che il presidente dell’India fosse trasformato in un “reggente”. Nehru respinse la maggior parte di questi suggerimenti: non era interessato alla Corona.
Intanto, in questo breve periodo, le opinioni verso il Commonwealth in India erano cambiate considerevolmente. Se prima si erano dimostrati assolutamente contrari, adesso il Primo Ministro e i suoi colleghi sembravano apprezzare i potenziali vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e desideravano rimanere all’interno dell’organizzazione.
Nehru aveva contribuito a placare i principi, che apprezzavano il loro legame con la corona britannica, l’onore che ne conseguiva, e la potenziale fonte di sicurezza e di peso diplomatico. Infine, l’evacuazione di un posto al tavolo da parte dell’India avrebbe probabilmente reso più facile per il Pakistan influenzare l’opinione pubblica occidentale.
Com’era possibile trovare un accordo tra le aspirazioni repubblicane dell’India e l’appartenenza a un Commonwealth basato sulla fedeltà condivisa alla Corona britannica?
Per Nehru, negoziare una soluzione a questo enigma amministrativo ha offerto una rara opportunità di proporre un modello radicalmente reinventato per il mondo postcoloniale.
La proposta di Nehru era semplice: la corona andava sostituita con una cittadinanza comune come base del Commonwealth, con diritti e accordi reciproci: si trattava di un’audace prima versione dello “Schengen”, con il re come comune “fontana d’onore”.
Nehru, dopo aver lanciato l’idea alla Conferenza dei primi ministri del Commonwealth nell’ottobre del 1948, inviò un memorandum ufficiale ad Attlee in cui spiegava come poteva essere concepita una cittadinanza comune e come potevano funzionare tali accordi reciproci.
Secondo lui, tale soluzione avrebbe messo l’India alla pari degli altri domini, avrebbe conservato un ruolo per il monarca e avrebbe protetto gli interessi degli indiani d’oltremare, che nelle altre parti dell’Impero britannico venivano trattati come cittadini di seconda classe ed erano soggetti di oppressione e razzismo.
Alla fine, nonostante la sua tenacia, la cittadinanza comune proposta da Nehru non ha mai trovato una realizzazione. L’idea ha generato una prevedibile opposizione, non tanto dalla Gran Bretagna, che già aveva qualcosa di simile a una cittadinanza comune in tutte le sue colonie secondo il British Nationality Act del 1948, ma dagli altri domini, quali il Canada e il Sud Africa, che o vietavano l’immigrazione delle razze asiatiche o avevano politiche di segregazione razziale che erano ovviamente incompatibili con la proposta di una cittadinanza comune.
L’ambizioso ordinamento che Nehru ha proposto per far risorgere l’Impero dalle sule macerie non ha preso forma concreta, ma la sua audace proposta è di per sé una testimonianza di ciò che un tempo era considerato possibile. Oggi, mentre Gran Bretagna e India negoziano un accordo di libero scambio, che potrebbe portare all’allentamento delle regole sui visti e sull’immigrazione per i cittadini indiani – innescando così la feroce opposizione razzista di Suella Braverman, Ministro dell’Interno britannico – possiamo forse osservare come Nehru sarebbe stato, dopo tutto, in testa alla curva.
L'articolo originale di Tripurdaman Singh è stato pubblicato nel Indian Express il 14 Novembre 2022 ed è stato tradotto con la collaborazione di Carlotta Lingeri. Lo scrittore è autore del libro Nehru: The Debates the Defined India and Sixteen Stormy Days: The Story of the First Amendment to the Constitution of India