Arundhati Subramaniam

Arundhati Subramaniam, nata a Bombay nel 1967, è una delle maggiori esponenti di poesia Indiana contemporanea. Ex danzatrice di Bharatha Nayam, è giornalista freelance e critica di danza, arte e spettacolo per numerose testate. Pluripremiata autrice di tredici libri di poesia e prosa, tra cui il recente volume di poesie Love Without a Story e un libro di saggi sulle donne contemporanee in viaggi sacri, Women Who Wear Only Themselves. I suoi altri lavori includono l’acclamata antologia di poesia sacra, Eating God e la biografia bestseller di un mistico, Sadhguru: More Than a Life. Ha pubblicato anche sulle pagine dell’Independent ed è curatrice della sezione indiana del portale di poesia internazionale “Poetry International Web”.

Prayer

May things stay the way they are
in the simplest place you know.

May the shuttered windows
keep the air as cool as bottled jasmine.
May you never forget to listen
to the crumpled whisper of sheets
that mould themselves to your sleeping form.
May the pillows always be silvered
with cat-down and the muted percussion
of a lover’s breath.
May the wall-clock
continue to decree
that your providence
runs ten minutes slow.

May nothing be disturbed
in the simplest place you know
for it is here in the foetal hush
that blueprints dissolve
and poems begin,
and faith spreads like the hum of crickets,
faith in a time
when maps shall fade,
nostalgia cease,
and the vigil end.
And may the vast moon-brindled fields,
opal mountains of sunwashed snow,
resonant with the laughter of all those buddhas,
never be more than a dream away.

Preghiera

Che le cose rimangano come sono
nel luogo più semplice che conosci.

Che le persiane chiuse
mantengano l’aria fresca come essenza di gelsomino.
Che tu non possa mai scordarti di ascoltare
il gualcito sussurrare dalle lenzuola
che modellano la tua forma dormiente.
Che i cuscini siano sempre argentei
di pelo di gatto e della tenue percussione
del respiro di un amante.
Che l’orologio a muro
continui a decretare
che la tua provvidenza
è dieci minuti in ritardo.

Che niente venga disturbato
nel luogo più semplice che conosci
perché è qui nel silenzio fetale
che i progetti si dissolvono
e cominciano le poesie,
e la fede si diffonde come il ronzio dei grilli,
fede in un tempo
in cui le mappe sbiadiranno,
la nostalgia cesserà,
e la veglia sarà finita.
E che i vasti campi screziati di luna,
le montagne opalescenti di neve inondata di sole,
risuonanti del riso di tutti i buddha,
non siano mai più lontani di un sogno.

“Ho subito molto presto, prima dei sedici anni, il fascino della poesia. Un’emozione fortissima a leggerla. Un’emozione ancora più grande a scriverla e sperimentare come la lingua assume schemi e forme. Proferire parole con valenza ritmica diventa una vera eccitazione.” afferma in un’intervista del 2008 al Corriere della sera. Arundhathi Subramaniam si caratterizza per la sua unicità di genere tra i poeti inglesi-indiani contemporanei, divulgando il suo pensiero davvero particolare che oscilla tra un profondo radicamento nelle tradizioni e le spiritualità locali, in particolare il movimento Bhakti, e un simultaneo rifiuto di essere definita in termini di una particolare tradizione o stereotipo culturale. “Sono nata e vivo a Bombay. Ho 41 anni. Non ho figli. Vivo da sola. Con poche parole: sono una donna che scrive e fa molte cose, giornalismo, poesia, critica letteraria e d’arte, testi per il teatro. Tutto questo per poter continuare a scrivere in forme diverse. Amo la scrittura in tutte le sue possibili manifestazioni. Sono curiosa e ho precisa consapevolezza di quello che mi interessa. Ho pubblicato due libri di poesia, On Cleaning Bookshelves nel 2001 e Where I live nel 2005, pubblicati entrambi da Allied Publishers di Bombay. E sto preparando una terza raccolta, che uscirà con una casa editrice importante di Londra, dove saranno riproposti anche i primi due.” Un’autrice indiana amante della multiculturalità, ma con un senso fortissimo d’appartenenza alla sua terra d’origine. “Scrivo della ricerca spirituale della provenienza e della meta da raggiungere. E tuttavia sono affascinata dalla mia città per la sua multiculturalità: riflette molte diversità, che sono una grande ricchezza.”

HOME

Give me a home
that isn’t mine,
where I can sleep in and out of the rooms
without a trace,
never worrying about the plumbing,
the colour of the curtains,
the cacophony of books by the bedside.

A home that I can wear lightly,
where the rooms aren’t clogged
with yesterday’s conversations,
where the self doesn’t bloat
to fill in the crevices.

A home, like this body,
so alien when I try to belong,
so hospitable
when I decide I’m just visiting.

CASA

Dammi una casa
che non sia mia,
dove possa entrare e uscire dalle stanze
senza lasciar traccia,
senza mai preoccuparmi dell’idraulico,
del colore delle tende,
della cacofonia dei libri vicino al letto.

Una casa leggera da indossare,
in cui le stanze non siano intasate
delle conversazioni di ieri,
dove l’ego non si gonfia
a riempire gli interstizi.

Una casa come questo corpo,
così aliena quando provo a farne parte,
così ospitale
quando decido che sono solo in visita.

Il linguaggio poetico universale di Arundhathi Subramaniam è passionale e coinvolgente, a volte ironico, è fatto di immagini che ritraggono la quotidianità della vita e che riescono a trasmettere infinite emozioni, non conosce limiti o confini e grazie alla sua essenziale semplicità arriva dritto agli animi di tutti i lettori.

Words

Words this evening are weapons.
We use them with easy precision,
in shaft and counter-shaft,
our mutilations Spielberg-swift,
casual, even artistic.

We who know
that the perfect line
that blinks up, kitten-eyed, from the page
is birthed in the shiver of intestine
and visions malarial,

in the hiss
of detonating dream,
in the terrifying surrender
to absence.

We who know
that artisans must build
only to blast
vast ziggurats of thought
into silence.

We who know.
We who forget.

Parole

Le parole stasera sono armi.
Le usiamo con facile precisione,
di punta e di taglio,
le nostre mutilazioni sono degne di Spielberg,
disinvolte, perfino artistiche.

Noi che sappiamo
che la linea perfetta
che ammicca, felina, dalla pagina
è partorita nel fremito dell’intestino
e da malariche visioni,

nel sibilo
del sogno che esplode,
nel terribile arrendersi
all’assenza.

Noi che sappiamo
che gli artigiani devono costruire
solo per far esplodere
vasti ziggurat di pensiero
nel silenzio.

Noi che sappiamo.
Noi che dimentichiamo.

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Mi chiamo Selene Sara Molica e sono laureata in lingue e culture Orientali e Africane, presso l’Università Orientale di Napoli. Durante il mio percorso universitario mi sono dedicata all'apprendimento delle lingue Hindi e Cinese, concentrandomi in particolar modo sull'approfondimento della cultura, delle religioni e della filosofia indiana e della letteratura Sanscrita. Attualmente ricopro il ruolo di coordinatrice presso l'associazione Sakshi e la ONLUS Glocal Cities.