Un libanese musulmano di 24 anni con simpatie per Hezbollah e l’Iran, ha accoltellato Salman Rushdie, il romanziere indiano naturalizzato inglese, a New York. È stato ricoverato in terapia intensiva e forse non guarirà completamente.
Ricordo ancora il giorno in cui morì l’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Era il 3 giugno 1989 e noi eravamo a Khotachiwadi, un sobborgo abitato da indiani con discendenza mista angloindiana nel cuore di Bombay, in visita ai genitori di p. Orville, un sacerdote salesiano padrino della mia famiglia ortodossa indù.
Mia sorella era vestita di nero e p. Orville scherzasse che probabilmente fosse in lutto per l’Ayatollah. La scelta del colore nel quale veste mia sorella non è cambiata molto da allora e, in un certo senso, credo che sia sempre in lutto, non tanto per l’Ayatollah, ma per tutto l’odio che si è lasciato alle spalle, un odio che non sarà mai in grado di tornare indietro, un odio malvagio…
Quando l’Ayatollah è morto, la speranza era quella che lasciasse un’eredità di amore, pace e tutto ciò che di caloroso e bello ci si aspetta dagli uomini di Dio, che siano preti cattolici, sacerdoti indù, rabbini, monaci buddisti o imam musulmani. Ma non necessariamente è così: la storia ci insegna che l’odio più barbaro è stato propagato proprio dagli uomini di Dio. Da Torquemada all’Ayatollah Ruhollah Khomeini, i quali hanno lasciato solo distruzione, nulla di santo o caro a nessun Dio. Ossa rotte, spiriti spezzati e nazioni distrutte: questo è stato il loro lascito nel nome dell’Unico Vero Dio. Citando Rushdie: “Fin dall’inizio l’uomo ha usato Dio per giustificare l’ingiustificabile”.
Ruhollah Khomeini era diverso, ha disparso più odio e veleno di qualsiasi altro sant’uomo nella storia, ha segnato tutta l’umanità con la sua intolleranza. Tutti continuiamo a pagare il prezzo della sua umiliazione per mano dello Scià dell’Iran e la sua presenza si sente ancora, nonostante sia morto 32 anni fa.
Salman Rushdie ed io abbiamo poco in comune. Lui è il principe della prosa, avendo vinto numerosi premi per storie e romanzi meravigliosi, io lotto con le parole sul mio portatile. Di nascita musulmano del Kashmir, io sono un indù di Goa. Rushdie ha l’età del mio defunto padre, abbiamo 33 anni di differenza. Lui è nato, come mio padre, nell’anno in cui l’India ha ottenuto l’indipendenza, io quando Indira Gandhi ha vinto la sua elezione nel 1980 dopo l’emergenza. Entrambi anni bui nella storia dell’India.
Nonostante le nostre differenze, siamo però fratelli, fratelli di Bombay. Siamo nati entrambi a Bombay (non Mumbai), lui nel ricco sud, io nel nord, più povero. Entrambi siamo cresciuti tra i numerosi, puzzolenti, umidi e affollati vicoli della città dei sogni, a quasi 33 anni di distanza.
Entrambi eravamo assaliti da varie lingue e dialetti da bambini, con sacerdoti anglicani e salesiani che ci insegnavano, spesso con il bastone, le basi della grammatica, della lingua e di tutta la nostra istruzione d’infanzia. Il nostro idioma viene dall’inglese indiano, inglese di Goa, inglese anglo-indiano con tratti di marathi, hindi, gujarati, bambaiya, kannada, telugu e altri ritmi che lui cattura così meravigliosamente nella sua prosa.
Ma abbiamo anche imparato cosa ti insegna realmente Bombay, una città nella quale per sopravvivere preghi e sfidi… tutto. Niente è assoluto, tutto ha un prezzo. Criminali, autorità, polizia, la tua idea di dio, la mia idea di dio.
Per me i libri di Rushdie hanno sempre rappresentato una sessione di terapia che mi riporta indietro alla mia infanzia, in cui tutti balliamo attraverso il sudore dei nostri incubi. Quando sei soffocato come un topo che affoga in una fogna allagata dai monsoni di Bombay, fai breccia per prendere aria fresca con la stessa euforia di quando raggiungi il mare, oppresso dall’umidità puzzolente dell’entroterra di Bombay. Le sue parole allora, come l’aria salmastra e mite del mare, avrebbero lenito i miei sogni, le mie speranze, le mie paure. Mi ha sfidato, mi ha rattristito, mi ha esaltato. Le sue rime senza senso sono un codice segreto decifrato solo da coloro che hanno camminato sulle sue orme nella città dei sogni, sab-kuch-chalta-hai (tutto va).
Il primo libro di Rushdie che ho letto è stato L’ultimo sospiro del Moro, sotto il consiglio, anzi l’insistenza, del mio insegnante proper English di scuola superiore. Seduto sul sentiero Rilke, su una rupe nei pressi di Trieste, sentivo Rushdie sussurrare Suspiro ergo sum mentre la bora cominciava a soffiare piano, quasi accarezzandomi.
Rushdie ha vissuto la sua vita difendendosi da un’accusa che sembrerebbe ridicola ad un ragazzo di Bombay. È stato condannato dagli uomini, anzi dal Grande Ayatollah Khomeini, che non aveva nemmeno letto il suo libro e lo ha semplicemente stigmatizzato come un frustrato sub-ispettore di Bombay condannerebbe un ragazzo saccente negli anni ’70.
Rushdie ha sopportato il peso della fatwa e ha viaggiato con essa per gran parte della sua vita. Ma, alla fine, era solo un appuntamento rinviato. Il suo aspirante assassino aveva 9 anni meno della sua condanna a morte di 33 anni. Tutto questo per le sue parole, parole che avevano lo scopo di mettere in discussione, dibattere e non ferire. Invece, le parole di Khomeini volevano solo mortificare e mettere a tacere. Ed è questo, essenzialmente, ciò che il regime iraniano ha continuato a fare.
L’ex primo ministro pakistano Imran Khan, durante il suo mandato, ha speso molti soldi che il Pakistan non poteva permettersi, facendo lobbying affinché l’islamofobia fosse riconosciuta a livello internazionale. Sono uomini come Khan, seguendo il percorso dell’Ayatollah, che hanno usato la religione per prendere continuamente di mira uomini come Rushdie.
L’attacco a Rushdie è il motivo per cui direi a Imran Khan che il mondo teme un Islam politicizzato. Abbiamo paura, Signor Khan, che lei applaudirebbe coloro che taglierebbero la nostra gola in un Bombay minute, senza capire davvero il senso di cosa abbiamo detto
Adesso speriamo tutti che Salman Rushdie torni, più forte che mai. Aspetto un nuovo libro per poter nuovamente visitare i vicoli di Bombay che ormai esistono solo nei nostri ricordi. Ice cream soda, caffè freddo con gelato o un piatto di pav bhaji con thumbs up… memorie di un’infanzia condivisa. Fino ad allora Suspiro ergo sum e, caro, ti aspettiamo…
- un Bombay minute è una quantità vaga di tempo che può durare da pochi secondi a 5-10 minuti; è un modo ironico e colloquiale che si utilizza quando qualcuno chiede di aspettare solo un minuto
Questo articolo è stato pubblicato in Times of Israel . Qui la traduzione con la collaborazione di Rebecca della Lena
Vas Shenoy è un studioso di rapporti Europa-India. Durante gli ultimi 22 anni della sua carriera ha lavorato per la gestione di aziende e progetti nei campi della tecnologia informatica, dell’energia rinnovabile e della cooperazione e sviluppo in più di oltre trenta paesi in Europa, Medio Oriente, Africa e Asia collaborando con governi, la Banca Mondiale e enti ONU. Vas è il Presidente dell'Associazione Sākshi e della Glocal Cities ONLUS.