
Fonte: Image Abyss
La narrazione è lo strumento più significativo nel rappresentare sé e gli altri; infatti, che sia in forma di romanzo, giornalismo o saggio, la cosiddetta narrativa dominante plasma l’immagine e la cognizione di popolazioni e culture a proprio piacimento. Il potere di narrare o di impedire ad altre narrative di formarsi e di emergere, è cruciale per la cultura e per l’imperialismo, e costituisce uno dei maggiori legami tra l’una e l’altro.
E’ in questo quadro che si inseriscono il lavori di Rudyard Kipling come narratore dell’Occidente, più precisamente, dell’Impero britannico, e come esempio di orientalismo. Verso la fine dell’Ottocento, l’impero non è più una semplice presenza sfocata o incarnata dalle sempre più frequenti apparizioni di deportati in Europa, ma diviene tema di interesse primario nelle opere di autori come Kipling. Esemplare è la sua celebre novella, L’uomo che volle farsi re, da cui fu tratto l’omonimo film diretto da John Huston.
L’uomo che volle farsi re è un racconto breve pubblicato per la prima volta in India nel 1888 come una delle quattro novelle che compongono la raccolta intitolata Il risciò fantasma e altri racconti dell’arcano (1888) è diventata, nel tempo, uno dei maggiori lavori della letteratura inglese sull’imperialismo britannico. Essa è un’allegoria dell’Impero, dove il pensiero personale e quello politico collidono in un tentativo di trascendere la divisione tra colonizzatore e colonizzato, specchio del pensiero dello scrittore combattuto tra il disprezzo per i modi in cui il colonialismo viene esercitato e la consapevolezza dell’effetto civilizzatore dell’Impero nel subcontinente indiano.
Per tracciare i tratti dell’ambientazione della sua novella, l’autore, si lascia ispirare dai resoconti di viaggio dei pochi avventurieri che si sono spinti ai limiti di quello che oggi è il Pakistan e oltre i confini dell’Afghanistan, fa vagare la sua fantasia guidato dai miti e dalle leggende di misteriosi discendenti dell’eroico condottiero greco Alessandro Magno dando vita alla storia di due uomini inglesi e delle loro avventure nel fantastico oriente.
Kipling, impersonato dall’io narrante della novella, il redattore di un giornale di provincia, muove una più o meno velata critica alla colonizzazione e al modo in cui l’Inglese si pone all’interno del mondo autoctono colonizzato. Tutto ha inizio in una carrozza di terza classe diretta nelle regioni desertiche dell’ovest, dove il corrispondente fa il suo primo incontro con uno dei due protagonisti. Il gentiluomo in questione è Peachey Carnehan che, insieme al suo socio Daniel Dravot, si aggira per gli stati dell’India centrale in cerca di fortuna. In un’afosa notte d’estate, Dravot e Carnehan, si dirigono alla redazione del giornalista per essere aiutati nel loro grande progetto: diventare re.
La descrizione dei loro intenti è, ai nostri occhi, divertente e, insieme, assurda; i due pretendono di diventare sovrani di un paese a loro sconosciuto e di cui nessuno può dire di saperne davvero qualcosa. Dato che l’India non può offrirgli ciò che è “in loro pieno diritto” decidono di voler diventare la trentatreesima e trentaquattresima divinità di questo misterioso paese chiamato Kafiristan. Un piano piuttosto ambizioso, che, tuttavia, con ironia ben rappresenta le pretese di colonizzazione inglesi. Tramite una serie di improbabili eventi e stereotipi i due riescono nel loro intento. La facilità con cui decidono di voler diventare re di un paese che nemmeno conoscono mostra l’idea che gli occidentali, portatori di civilizzazione, hanno delle altre società. Le informazioni sul Kafiristan sono talmente scarse e inattendibili da far immaginare a Kipling che anche lì sia conosciuta la massoneria e che gli abitanti siano dei massoni e, dunque, in quanto Fratelli, che i due possano farsi riconoscere come Gran Maestri dell’Arte.
La creazione dell’Altro e la sua sottomissione non è che l’applicazione di attributi particolari ad una intera collettività dando origine a identità collettive. Questo modo di agire, che ha origini antiche, è riscontrabile anche tra gli europei del XVIII e del XIX secolo, e viene denominato orientalismo. Il levante è così importante per gli occidentali in quanto si trova ad essere non solo il luogo delle più antiche colonie europee, ma anche il concorrente principale dal punto di vista culturale e il più vicino e ricorrente simbolo del Diverso.
Nella letteratura orientalista e di colonizzazione, i conquistatori sono sempre per natura superiori agli indigeni e questi ultimi non godono mai della possibilità di essere considerati attraverso la conoscenza della loro cultura ma sono l’incarnazione di semplici stereotipi. Una piccola eccezione va fatta per il caso qui presentato, infatti, i kafiri, pur non essendo considerati degni di volontà vengono riconosciuti come esseri umani alla luce di una presunta purezza originaria data da un’ipotetica discendenza occidentale, tuttavia, anche Kipling, in L’uomo che volle farsi re, conferma che alla base dell’orientalismo non c’è un vero intento di conoscere e comprendere le popolazioni assoggettate.
Letture consigliate: Conrad, J., Cuore di Tenebra, 2013 ; Said, E., Orientalismo, 2013 (Edizione economica Feltrinelli)
Mi chiamo Giulia Dal Bello e sono laureata in Lingue, Società e Letterature dell'Asia e dell'Africa mediterranea all'Università Ca'Foscari di Venezia. Ho conseguito un Master in Studi Palestinesi all'Università SOAS di Londra. Mi sono dedicata in particolare allo studio dell'Orientalismo in India e al ruolo delle Organizzazioni Internazionali e dell'UNRWA nell'ambito delle relazioni israelo-palestinese.